LA VENDETTA DI UN MORTO
LA LEGGENDA DI JANA DI MOTTA
LA LEGGENDA DELLA MESSA INTERROTTA
SUOR CECILIA
IL CASO DI SCIACCA
LA MADONNA DEI MIRTI
IL FUCILE A DOPPIO USO
IL FIUME DI LATTE
IL BEY RAGUSANO
LA FIGLIA DI MIRABETTO
IL RE E IL CONTADINO
LA VIA DUE MARITI
LAGO DI NICITO
MERIDIANA DEI BENEDETTINI
IL VICERE’ E LA BARONESSA
PRACCHIO
LA PANTOFOLA DELLA REGINA ELISABETTA
PADRE CELESTINO
UN SANTO STRAORDINARIO
LA GROTTA D’ANZISA
IL TESORO DI CALAFARINA
ALCORANO
ASPANU
LE VECCHIECAMPANE DI CATANIA
ACATAPANI
LE VISITE DEI BORBONI
IL FURTO ALLA CHIESA DI S.NICOLO’ L’ARENA
LA STRANA MORTE DEL VICERE’ CARAMANICO
LA LEGGENDA DELLA BELLA ANGELINA
L’UVA SCONFIGGE I SOLDATI FRANCESI
LA LEGGENDA DEI DUE FRATELLI
TORRE ALESSI
LA LEGGENDA DE LA ZISA
L’ELEFANTE DI CATANIA
TERREMOTO DEL 1818
UNA LAPIDE PER GOETHE
NEVE
L’ATTENTATORE DI TOGLIATTI
PIETRA DEL MALCONSIGLIO
LA LUNA
TESORI NASCOSTI
VILLA SCABROSA
LA PRIMA STAMPA
PORTA UZEDA
CARCERE VECCHIO
BILLONIA
IL TERREMOTO DEL 1693.
LA STORIA DI GAMMAZITA
PIPPA LA CATANESE
I GIGANTI URSINI E IL PALADINO UZETA
SCILLA E CARIDDI
ARETUSA
ACI E GALATEA
I RIFLESSI CATANESI DELLA STORIA DI COLA PESCE.
LA LEGGENDA DEL CAVALLO SENZA TESTA
IL CAVALLO DEL VESCOVO DI CATANIA
IL CLIMA DELLA SICILIA

LA VENDETTA DI UN MORTO su

Nel XVI secolo si verificò a Gela una terrificante successione di vendette baronali; la bella è ricca baronessina Isabella Moncada,orfana di entrambi i genitori, fu chiesta in sposa dal giovane barone Jacopo Introna. Lo zio di Isabella, Iago Moncada, che era il tutore della giovane, finse di acconsentire; ma in verità voleva lui in moglie la nipote, per appropriarsi della cospicua dote: difatti non permise che il giovane barone frequentasse Isabella, che però gli fece conoscere segretamente le intenzioni dello zio nei suoi riguardi. L’innamorato Jacopo immediatamente invitò a una battuta di caccia tutti i signori della zona e fece in modo che lo zio di Isabella cadesse in un agguato. Il vecchio zio fu colpito,ma non morì; anzi riuscito a fuggire, non appena rientrato nel suo castello, si recò con tutti i suoi uomini ad invadere il palazzo degli Introna, riuscendo a far prigioniero il giovane Jacopo, rinchiudendolo nella più segreta delle sue prigioni baronali. Isabella, che era ignara di quello che era accaduto a Jacopo, sentì una notte il canto malinconico del prigioniero, che narrava la sua disavventura e senza perder tempo, prese un pugnale, entrò nella stanza dove dormiva lo zio e lo uccise nel sonno. Subito andò a liberare il suo fidanzato, e si apprestò a partire con lui. Ma aveva fatto i conti senza pensare alla perfidia dello zio tutore, il quale aveva dato l’ordine ai suoi dipendenti di uccidere sul posto chiunque avesse tentato di abbandonare il castello senza un permesso da lui firmato. Quindi, quando i due giovani innamorati cercarono di abbandonare il castello, fu chiesto loro di mostrare il salvacondotto, che essi non possedevano: e pertanto furono immediatamente uccisi dalle guardie. Li aveva raggiunti la vendetta di un morto.

LA LEGGENDA DI JANA DI MOTTA su

Nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno e l’anziano conte di Mòdica, Bernardo Cabrera, Gran Giustiziere del Regno, voleva prenderla in sposa, per aumentare il suo potere. La regina Bianca, però, non voleva acconsentire; allora il conte la inseguì per tutto il regno; la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori, che catturò il focoso Giustiziere facendolo rinchiudere nel castello di Motta, dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta: Jana, che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio e ottenuto il permesso dalla regina, Jana si travestì da paggio e si fece assumere al servizio del conte, entrando nelle sue grazie e convincendolo a tentare un’evasione per perseguire i suoi tentativi di sposare la regina Bianca. Il conte cadde nella trappola e una notte, dopo averlo fatto travestire da contadino, la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello, sostenendolo con una corda; ma ad un certo punto, Jana lasciò la corda e lo sventurato conte cadde dentro una grossa rete, preparata anticipatamente, dove rimase tutta la notte al freddo; al mattino fu beffato dai contadini, che lo presero per un ladro, deridendo di lui. Jana, ritornò alle sue vesti femminili, e smascheratasi, lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania, dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca.

LA LEGGENDA DELLA MESSA INTERROTTAsu

Un’ insolita leggenda è legata alla distruzione di Gulfi (Rg) nel 1299. Narra di soldati francesi che penetrarono nella chiesa dell’Annunziata, uccidendo tutti i fedeli che vi si erano rifugiati, addirittura il sacerdote che aveva in mano il calice per l’Elevazione, interrompendo la messa nel suo momento più solenne e andarono a godere dei frutti del loro saccheggio, bivaccando per tutta la notte. Ma alla mezzanotte precisa, si sentì sonare messa nella chiesa dell’Annunziata; ed ecco apparire il prete col calice in mano, seguito da tutti i fedeli che insieme a lui erano stati assassinati. Spinti da una forza misteriosa, tutti i soldati francesi li seguirono in chiesa, dove la messa riprese,dal punto preciso dove era stata selvaggiamente interrotta. Alla fine, un turbine impetuoso scosse violentemente la chiesa facendo aprire una voragine, in cui precipitarono tutti i soldati francesi, e il pavimento si richiuse su di loro.

SUOR CECILIAsu

La nobilissima figura di un’autentica eroina del nostro tempo, suor Cecilia Basarocco, è nata a Recalmuto (AG). Le terribili giornate dell’11 e del 12 luglio del 1943 – i giorni dello sbarco anglo-americano sull’isola – la sorpresero come unica guida dell’ospedale di Niscemi presso Gela, dove era sbarcata la VII armata americana. L’intero personale dell’ospedale si era dato alla fuga, e suor Cecilia era rimasta sola, a curare i feriti, accudire i soldati siciliani e a dodici soldati tedeschi, che si erano rifugiati anch’essi nell’ospedale di Niscemi. Quando, poche ore dopo, le avanguardie americane raggiunsero l’ospedale di Niscemi, suor Cecilia ottenne che i militari siciliani potessero raggiungere le loro case; ma le cose si aggravarono per i militari tedeschi, che considerati delle spie, furono condannati all’immediata fucilazione. Gli sventurati vennero schierati al muro dell’ospedale, col plotone d’esecuzione pronto a far fuoco. In quel momento accade qualcosa di stupefacente: l’intrepida suora si pose con le braccia aperte, dinanzi ai dodici condannati, e gridò agli americani: “Sparate, sparate anche su di me, e che Iddio vi perdoni!”.Nessuno degli americani ebbe il coraggio di far fuoco; e i soldati tedeschi, salvati dall’eroismo di questa nostra coraggiosa suora, furono mandati al campo di prigionia.

IL CASO DI SCIACCAsu

E’ la storia, durata 70 anni, dal 1459 al 1529, che narra l’odio feroce che distrusse due nobili famiglie saccenti, quelle dei conti Luna e dei baroni Perollo, in cui furono coinvolti perfino l’Imperatore Carlo V e il papa Clemente VII. L’orribile vicenda incluse anche cannoneggiamenti con artiglierie tra le due famiglie. Terminò quando il conte Sigismondo Luna, che avendo fatto uccidere il barone Giacomo Perollo, e aveva legato il cadavere alla coda di un cavallo, facendolo trascinare per le vie di Sciacca, in seguito andò a chiedere perdono al papa Clemente VII, che era suo zio, e all’imperatore Carlo V, che glielo negarono, data la ferocia dei suoi misfatti, e don Sigismondo si uccise, gettandosi nel Tevere. Ma a perdere veramente fu la città di Sciacca, che dai 35.000 abitanti del 1459 si era ridotta a 9000 nel 1529. Il popolo di Sciacca cantò tristemente: Casu di Sciacca,spina di stu cori/di quantu larmi m’ha fattu ettari!/Iddi si lazzariaru comu cani/di Sciacca ‘un ni rimasi ca lu nomu!

LA MADONNA DEI MIRTIsu

Nella campagna di Villafranca Sicula (AG) esiste una chiesetta dedicata alla Madonna dei Mirti, la cui origine è interpretata da un’interessante leggenda locale. Un vecchio frate stava rientrando dalla questua al suo convento di Bugio, mettendo sul suo asinello due quadri sacri, di cui uno raffigurava la Madonna. Quando fu nei pressi del convento, si accorse di aver perso il quadro che raffigurava la madonna: Subito tornò nei suoi passi, e ritrovò il quadro lungo la strada, dentro un cespuglio di mirti. Rientrato al convento, raccontò agli altri frati l’insolita avventura che gli era capitata; ma, quando stava per mostrare loro il quadro della Madonna, questo scomparve per la seconda volta, e fu nuovamente ritrovato dentro il cespuglio di mirti, lungo la strada per Villafranca. Si comprese quindi che la Madonna voleva essere onorata proprio in quel punto, e così venne costruita la chiesetta campagnola della Madonna dei Mirti di Villafranca Sicula.

IL FUCILE A DOPPIO USOsu

Una leggenda d’Acireale conferisce al barone don Arcolaro Scamacca l’invenzione di uno speciale fucile, da cui partivano contemporaneamente due colpi: uno verso il bersaglio, l’altro verso colui che tirava il grilletto. Si sostiene che egli si sia servito di questo specialissimo fucile, per eliminare non soltanto i suoi avversari, ma anche i sicari, cui affidava le sue vendette. Ma bisogna riconoscere che anche i suoi scherani non dovessero essere molto intelligenti, se usavano questo “fucile a doppio uso” senza pronosticarne gli effetti.

IL FIUME DI LATTEsu

Presso Catenanuova (En) , in contrada Cuba, si trova ancora un’antica masseria, che molto tempo fa fungeva anche da albergo e da stazione di posta, per chi si recasse a cavallo o in lettiga da Enna a Catania. Una lapide, posta sotto il balcone, commemora che in quella stazione di posta pernottarono un re e una regina nel 1714, e un grande poeta tedesco nel 1787, Wolfgang Goethe, col suo compagno di viaggio, il pittore Crisoforo Kneip. E’ interessante raccontare perché vi si sia fermata a pernottare una coppia regale nel 1714: ciò fu dovuto all’espediente ideato dal cavaliere Ansaldi da Centùripe, che era il proprietario della masseria-albergo, e sentiva il desiderio di riverire personalmente il re Vittorio Amedeo II di Savoia, re di Sicilia dal 1713, che con la regina Anna d’Orlèanns si stava recando da Palermo a Messina, per tornare in Piemonte. Quando il corteo reale stava per giungere alla sua masseria, il cavaliere Ansaldi diede ad i suoi dipendenti un insolito ordine: versare nel torrentello vicino, tutto il latte che avevano munto quel giorno. Quando le avanguardie del re arrivarono al torrentello, si fermarono esterefatti ed increduli: davanti a loro c’era un fiume di latte! Stupefatti, corsero a comunicarne la notizia al re, che, dubbioso, volle assaggiare: e dovette riconoscere che i suoi cortigiani non avevano preso un abbaglio. Si fece avanti allora il cavaliere Ansaldi, il quale spiegò loro che egli era ricorso a questo espediente, per avere l’onore di ossequiare personalmente i reali di Sicilia; e, poiché si era già fatta sera, li chiese di pernottare, con tutto il loro seguito, nella sua masseria. L’invito fu gradito al re, che al momento della partenza nominò l’Ansaldi, inventore del fiume di latte, Capitano onorario delle Guardie reali.

IL BEY RAGUSANOsu

Si narra di Murad-Aghà, nato a Ragusa di Sicilia intorno al 1480, che ancor giovane fu rapito dai corsari turchi, e venduto a Costantinopoli ad un custode dell’harem del Sultano Selim I. Qui venne ribattezzato con il nome di Murad, e poiché era di bellissimo aspetto, la favorita del sultano, Zulima, lo volle al suo personale servizio e il sultano glielo donò, ma prima lo fece castrare (prevenendo ogni tentazione di Zulima e Murad). Morti il sultano Selim e la sua favorita Zulima nel 1521, Murad si concese alla vita militare, mostrrandosi un capo talmente valoroso, che venne soprannominato Aghà, cioè condottiero.Come simbolo delle sue vittorie militari, Murad Aghà fece innalzare a Tagiura in Libia, una lussuosa e sfarzosa moschea, alla cui costruzione lavorarono numerosi schiavi siciliani. Quando la costruzione fu completata, Murad Aghà non dimenticò le sue origini siciliane: fece liberare tutti gli schiavi siciliani che vi avevano lavorato e li rimandandò in Sicilia. Quando morì volle essere seppellito proprio in quella moschea che avevano costruito i suoi compatrioti siciliani.

LA FIGLIA DI MIRABETTOsu

Questa strabiliante donna siciliana, figlia del capo tribù Abbad, riuscì a tenere testa all’imperatore Federico II: il quale, assediando l’emiro Abbad nella sua rocca di Entella (oggi Poggioreale, in provincia di Trapani), lo aveva ingannato assieme ai suoi due figli maschi, promettendo loro di lasciarli vivi se si fossero arresi. Solo la figlia di Mirabetto, fiutando l’inganno, non si volle arrendere, e fece bene, perché Federico II dopo reali accoglienze, li fece uccidere. L’intrepida donna continuò la resistenza e quando l’imperatore gli fece arrivare seduttive proposte per la sua resa, ella finse di accettare, e invitò Federico a inviarle nottetempo e segretamente, trecento dei suoi migliori uomini, che ella stessa avrebbe fatto entrare dentro la fortezza di Entella. Federico II cadde nella trappola, e la “Figlia di Mirabetto” vendicò la morte dei suoi cari con cento dei migliori guerrieri del suo nemico.Infine, lei stessa si tolse la vita col veleno.

SIL RE E IL CONTADINOsu

Sul re Ferdinando di Borbone, che fu IV a Napoli e III in Sicilia, e Ferdinando I delle Due Sicilie dal 1816 al 1825, si raccontano tante vicende, tra le quali quella riguardante due contadini siciliani, uno di Trabìa e l’altro di Termini Imprese. Al suo passaggio da Trabìa, un contadino gli offrì un cesto di fichi prematuri, e si aspettava una ricompensa, ma il re, indignato, invece di ringraziarlo gli disse”Mi prendi per un affamato, dato che mi regali dei fichi?”, e lo fece cacciare via dalle sue guardie. La notizia si diffuse rapidamente, e quando il re passò da Termini un contadino, furbo e gentile, si avvicinò al re e gli offrì un cestino di pere,accompagnando il dono con la frase “A gran signori, pìcciulu prisenti!”, A gran signore, piccolo dono. L’espressione gentile piacque a re Ferdinando, che non solo ringraziò il contadino ma gli donò una sacca di monete d’oro.

LA VIA DUE MARITIsu

A Buccheri (SR) si trova una via nominata “via due mariti”, legata ad un fatto di bigamia involontaria tenuta avvenuta durante l’800. Una perfida suocera fece in modo di distruggere il matrimonio del figlio, perché la nuora non le andava a genio. Il figlio sparì dalla circolazione, e dopo decenni si diffuse la voce che era morto. L’ex moglie, ritenendosi vedova, si risposò, ma un giorno il primo marito fece ritorno a Buccheri, perciò la donna risultò moglie di due mariti. Il caso fu risolto giudiziariamente, a favore del primo marito, e a memoria di questo singolare evento rimane l’intitolazione della via dei due mariti a Buccheri.

LAGO DI NICITOsu

Successivamente all’eruzione dell’Etna del 496 a.C., il corso del fiume Amenano fu colpito dalla lava nelle vicinanze dell’attuale S.Maria Di Gesù ed in seguito si formò uno specchio d’acqua della profondità di circa 15 metri e dalla circonferenza di 6 Km. Era uno dei luoghi più belli e incantevoli di cui Catania poté vantarsi fino al 600. Era circondato da piccole colline e sulle sue rive vennero elevate ville stupende, ritrovo della società brillante catanese. Fu chiamato lago di Anicito (detto poi Nicito) il cui nome deriva, probabilmente, dall’aggettivo greco aniketos(invitto), che viene a sua volta da Nike (vittoria). Il lago era talmente grande che l’8 settembre 1652, ricorrendo la festa della Madonna fu teatro di una maestosa regata navale. Il lago fu completamente distrutto e scomparve in seguito alla terrificante eruzione dell’Etna del 1669. Dopo aver distrutto numerosi centri etnei ,il torrente di lava si diresse su Catania e il 15 aprile, invasa la campagna a nord-est della città e la valle di Anicito, si riversò nel lago stesso, riempiendolo in sei ore. Il solo ricordo che rimane oggi del lago è il toponimo che fu conferito negli anni venti alla strada che collega la via Plebiscito a piazza S.M.Di Gesù.

MERIDIANA DEI BENEDETTINIsu

Si trova nella chiesa di S. Nicolò l’Arena, in Piazza Dante, fu costruita nel secolo scorso dal barone tedesco Wolfgang Sartorius von Waltershausen, uno dei più rinomati topografi della Germania. Sin dai primi anni dell’800 i monaci avevano chiesto di munire la loro chiesa di una meridiana “simile ad altre che erano state costruite in celebri abbazie”. L’abate don Federico La Valle destinò al progetto una cospicue somma, ma fu il suo successore, don Tommaso Ansatone, ad assegnare l’incarico all’astronomo palermitano Nicolò Cacciatore. L’opera però, appena iniziata, venne subito sospesa. Nel 1838, dopo le due visite compiute nel 1834 e nel 1837, ritornò a Catania il Sartorius per completare uno studio dell’Etna (sul vulcano vi sono due monti dedicati al suo nome), di cui lascerà una delle carte più complete. E a lui il nuovo abate, Don Giovanni Francesco Corvaia, affidò la ripresa dei lavori. Vennero così gettate le basi per il grande orologio solare che avrebbe indicato ai catanesi, giorno per giorno, mese per mese, l’attimo del mezzodì. Il barone chiamò al suo fianco il danese Cristoforo F.W. Peters, che si trovava in quel momento a Catania, per eseguire studi d’astronomia, tra cui la determinazione della latitudine geografica della città e il rilevamento topografico dell’Etna. Ingaggiò anche artigiani e scultori locali per la realizzazione delle piastrelle con le figure dello Zodiaco, per i fregi ornamentali e per i numerini che segnarono i giorni e i mesi, come in un grande calendario dispiegato da una punta all’altra del transetto. L’opera fu terminata nel 1841 e venne molto apprezzata, e lo è tuttora, per arditezza di concezioni e calcoli, per la magnificenza della realizzazione è specialmente perché quella meridiana “spaccava il secondo” : a mezzogiorno in punto, dal foro praticato nel tetto del transetto, ad un’altezza di 23 metri, 91 cm e 7 mm, un raggio di sole piombava, come una spada luminosa, sul posto esatto dove era segnato il giorno e il mese. Sulla fascia marmorea distesa sul pavimento spiccava, e spiccano ancora nonostante siano danneggiati, 24 lastroni di marmo intarsiato: nel mezzo, in rosso, la linea meridiana. Accanto ai segni dello Zodiaco sono scolpite iscrizioni con notizie riguardanti l’opera, indicazioni per l’esatta interpretazione dei segni nelle varie stagioni dell’anno, non che i rapporti tra le varie misure in uso in Europa. Inoltre la meridiana è completata da altre iscrizioni che forniscono interessanti dati fisici e metereologici relativi alla città. Wolfgang Sartorius fu anche l’autore di un altro orologio solare che si conserva ancora a Catania: lo “Gnomone” posto nel Giardino Bellini, all’estremità delle due rampe di scale che dalla parte occidentale del grande piazzale portano nel viale degli uomini illustri.

IL VICERE’ E LA BARONESSAsu

Intorno alla fine del XVI secolo divenne viceré, don Marcantonio Colonna. Quando giunse a Palermo era già anziano, ma si infatuò perdutamente della nobildonna Eufrosina Valdaura, moglie del nobile Calcerano Corbera e baronessa del Miserendino. Il marito e il suocero se la presero pesantemente con il viceré e durante un ricevimento pronunciarono minacce di morte nei suoi confronti. M questi sbagliarono, perchè il viceré, temendo per la sua vita, non volle correre rischi e prese dei provvedimenti. Prima di tutto fece arrestare il suocero della baronessa per debiti non pagati, che, detenuto nel carcere della Vicaria, morì in breve tempo. Rimaneva ancora il marito. Un giorno fu invitato per una gita di piacere che si tenne su di una galera del viceré e fece scalo a Malta. Un mattino il Corbera venne trovato ucciso. Dopo un momentaneo periodo di lutto la baronessa commemorò i suoi amori con il viceré, che fece arredare alcune stanze su porta Nuova per i loro incontri amorosi e, per manifestare il suo amore. Regalò al popolo una maestosa fontana nei pressi di piazza Marina, adorna di sirene,putti e creature marine dove spiccava l’immagine di una sirena bellissima che dai seni stillava acqua per gli assettati. In quella sirena tutti riconobbero l’effige della baronessa Eufrosina del Miserendino.

PRACCHIOsu

Nel 1708, quindici anni dopo il terribile terremoto che aveva devastato Catania, un’epidemia dimezzò l’ancora scarna popolazione catanese. A quei tempi la città era piccola, gretta e orrendamente sporca. Il quartiere del Carmine, sorto dopo il 1693 fuori la Porta di Aci, era detto pracchio appunto per la sua sporcizia. La situazione igienico-sanitaria sfuggiva di mano al Senato. Non si riusciva a porre un serio controllo al dilagante sudiciume che a sua volta era causa di malattie ed epidemie. L’oneroso stato di cose spinse quindi il Senato a <<fare reformare l’antiche o aumentare le norme che regolavano l’officio del Mastro di Mondezza>>, il quale, a sua volta, sottostava direttamente da un Patrizio incaricato di sorvegliare la situazione igienica della città. Il Mastro di mondezza aveva il diritto di <<promulgare bandi o comandamenti secondo le occorrenze>>. Le norme erano molteplici e abbastanza esplicite. Ai cittadini fra l’altro era proibito di <<gettare sterco e mondezze per le pubbliche strade, ma appoggiarle alle proprie mura al fine di poterle trasportare fra il giro di giorni 15 nella nuova strada del Fortino; o pure nel fosso grande vicino al bastione antico di S.Barbara vicino la casa dé Teatini o altrove>>. In seguito le regole di igiene e di polizia urbana divennero più severe e si estesero in altri settori: fu vietato, <<per l’incomodo e detrimento che apportano al pubblico della comune salute, la “retina” delle mule per le vie della città, nonché il vagare di porci, oppure far bagnare gli animali -cavalli o muli- in riva al mare>>. Il Patrizio, in sostanza, doveva vigilare affinché le bestie da carico non girassero per la città, ma si limitassero a percorrere le strade più corte per attraversarla. A cavalli e muli era, infatti, vietato<<passare di giorno per il Corso S.Filippo, piano di S.Agata, Quattro Cantonere>>, ed era invece fatto obbligo di <<andar correndo per la città>>. Un arduo mestiere era quello della bestia, nel 700 catanese.

LA PANTOFOLA DELLA REGINA ELISABETTAsu

Maletto è il più alto comune della provincia di Catania, e su una delle sue rupi più alte, la “Rocca Calanna” cadde una pantofola della regina Elisabetta, quando i diavoli nel 1603 gettarono la regina dentro il cratere dell’Etna, per condurla all’inferno. Parecchio tempo dopo, un pastorello vide luccicare al sole la pantofola e la volle toccare, ma si ustionò le mani. Fu chiamato quindi un frate esorcista, e la pantofola volò via, andandosi a posare su una torre del castello di Maniace, presso Bronte. Della pantofola si riprese a parlare quasi due secoli dopo, quando nel 1799 il castello di Maniace fu donato dai Borbone all’ammiraglio inglese Orazio Nelson, durante una festa da ballo tenuta a Palermo, perché in quell’occasione una dama misteriosa -si dice, il fantasma della regina Elisabetta- donò segretamente a Nelson un prezioso cofanetto, dentro il quale era custodita la fatidica pantofola, e gli raccomandò di non farla mai vedere a nessuno e di averne cura scrupolosa. Ma Nelson se la fece prendere dalla sua amante, Emma Hamilton, e la stessa notte gli apparve in sogno la misteriosa dama, che gli disse: “Sciagurato! Hai perduto la tua fortuna!”. Pochi giorni dopo Nelson perse la vita nella battaglia di Trafalgar, il 21 ottobre 1805.

PADRE CELESTINOsu

Era un monaco di casa ripostese, in sostanza di quelle persone che pur essendo laiche, praticano vita religiosa. Dei giovinastri locali, sapendo che padre Celestino, pur essendo “monaco di casa” era benestante, pensarono di mettere le mani sul tesoretto, ma non rapinandolo o un con atti di violenza, ma in maniera completamente “religiosa”. Dunque, una notte, si travestirono da angeli, con le camicie da notte lunghe fino ai piedi, e con le ali di cartone appiccicate alle spalle, scoperchiarono le tegole della casetta dove abitava padre Celestino, e gli calarono un paniere attaccato a una corda, mentre cantavano: <<O padre Celestino dice il buon Gesù / prima manda il gruzzoletto / e dopo sali tu!>>. Lo sventurato “monaco di casa”, nella sua ingenuità, abboccò all’amo; raccolse subito tutti i soldi che aveva, li mise nel paniere, si inginocchiò con le mani in croce, e….rimase attendendo. Dopo qualche tempo quei bravi giovani decisero che era di nuovo arrivato il momento di ritentare l’impresa, rifecero tutto come la prima volta; si vestirono da angeli, calarono il paniere, cantarono la canzone; ma questa volta la canzone la sapeva anche padre Celestin, il quale, quando i presunti angeli finirono di cantare, rispose a sua volta, e con la stessa intonazione: <<O angeli beati / dite al buon Gesù / che mi ha fregato una volta / e non mi frega più!>>.

UN SANTO STRAORDINARIOsu

Il Santo Patrono di Noto è il piacentino Corrado Gonfalonieri, che condusse una vita eremitica a Noto, dove visse dal 1343, fino alla morte, avvenuta nel 1351. Tra i suoi miracoli, si narra quello di avere allargato la sua grotta a forza di spallate. Infatti ancora oggi i Retini dicono nelle avversità: <<E chi sono io, san Corrado, che allargò la sua grotta a forza di spalle?>>. E le campane delle chiese, alla sua morte, il 19 febbraio 1351, suonarono da sole, per annunziare il trapasso, per cui i Retini lo considerarono santo prima ancora della canonizzazione pontificia, pertanto incorsero nella censura della Curia romana, da cui vennero liberati solo da papa Paolo III nel 1544, quando la Congregazione dei Riti ne concese ufficialmente il culto come Beato; e papa Urbano VIII lo canonizzò nel 1615.

LA GROTTA D’ANZISAsu

Una storia davvero affascinante è quella della “travatura” della grotta d’Anzisa, una grotta che si trova fra Bellarosa e Calascibetta. Si narra che due cacciatori, girovagando per la vallata a caccia di conigli selvatici, lanciarono il furetto in una tana e in attesa all’entrata con una rete in mano pronti ad impigliarvi il coniglio appena questo sarebbe uscito dalla tana. Rimasero però delusi perché il coniglio non uscì, ed era scomparso anche il furetto. Dopo aver aspettato a lungo, i cacciatori decisero di scavare nella tana per ritrovare almeno il furetto. Più scavavano più la tana acquisiva altre aperture, che si allargavano in grotte più profonde, fin quando scorsero al centro della grotta un mucchio enorme di monete d’oro. Infilarono a manciate le monete in sacchi dei quali bardarono due mule che s’erano fatte prestare da Zu Toni d’Anzisa. Nel frattempo la notte era calata e i due compari decisero di mangiare le provviste che si erano portati. Dopo aver mangiato e bevuto si addormentarono fianco a fianco, ma ad un tratto si svegliarono in preda ad atroci dolori di ventre. Colti da tremendi sospetti, si accusarono a vicenda di aver avvelenato il cibo per restare soli a godere del tesoro scoperto. Ad un tratto la rissa tra i due terminòì: i due cacciatori erano morti all’improvviso. Le ore trascorrevano e le mule decisero da sole di tornare alla loro stalla. Alle prime luci dell’alba raggiunsero il padrone e, per svegliarlo e farsi aprire la stalla, smossero le teste per far tintinnare le sonagliere. Il padrone scese e vide tutto quel ben di Dio dentro le sacche. Una fortuna straordinaria!…La Provvidenza lo aveva pensato, e non ci pensò due volte a nascondere il tesoro e ad usarlo con accortezza. La grotta fu chiamata d’Anzisa, dal nome del ricco fortunato. Non vi si trovarono pi ù tesori, ma acquistò la fama di essere stregata e gli amanti infelici vi prestano sostegno qualche volta per avere un segno del favore della loro amante.

IL TESORO DI CALAFARINAsu

La grotta di Calafarina è presso Pachino a Marzamemi, il cui toponimo deriva dall’arabo Marsa-al-haman, che significa il “porto delle colombe”. Una leggenda del luogo narra che dentro la grotta di Calafarina gli arabi, sconfitti dai normanni, prima di ripartire per l’Africa, ammucchiarono i loro cospicui tesori, ivi trasportati con 100 muli e sgozzarono i loro schiavi mori, per lasciarli come guardiani di questa travatura. A Pachino si afferma che, nelle notti di tempesta, si sentono ancora le grida di questi guardiani sventurati.

ALCORANOsu

Così fu ordinariamente inteso dai catanesi, fino al 1813, il Libro Rosso (dalla fodera color fiamma), depositato presso la Loggia (palazzo comunale), nel quale erano elencati i nomi e i rispettivi privilegi spettanti alle famiglie che, per grado di nobiltà, componevano la Mastra Nobile (altrimenti detta Mastra Serrata per la ristretta e non ampliabile cerchia dei suoi componenti). Da essa si sceglievano i detentori del governo della città; nessuna altro cittadino poteva accedere alle cariche pubbliche. Sicché a parte ogni merito e virtù, per parecchi secoli Catania fu retta e amministrata esclusivamente da 200 persone appartenenti a una quarantina di famiglie. L’appellativo deriva dall’accostamento di quella sorta di sacro registro al Corano dei musulmani contenete la dottrina di Maometto. Nella lingua araba, infatti, <<al>> vale epiteto di difetto o qualità. Nella fattispecie l’epiteto, evidentemente, era spregiativo.

ASPANUsu

Era un venditore di ciambelline (‘nciminati). Alla fine dell’800 e nei primi anni del 900 si aggirava al giardino Bellini col suo cestello, colmo di quei dolcetti, <<sospeso al collo con una cinghia e poggiato al ventre rotondetto> > e <<con una suadente cantilena esortava i bambini a piangere per ottenere dal papà i croccanti geminati col sesamo>>. Era un personaggio caratteristico <<che non potremmo dire né giovane né vecchio: aveva passato, dicono, i 45 anni, ma aveva tutto l’aspetto di un ragazzo con la sua faccia rotonda e completamente priva di barba e dalla pelle liscia e per nulla afflosciata dall’età>>. Basso di statura e panciuto, era notissimo in tutta la città ma nessuno seppe mai qualcosa della sua vita privata, neanche il suo cognome. Poi, <<questo metèco venuto non si sa da dove>> scomparve dalla circolazione:ormai carico di anni, anche se aveva sempre la faccia di un fanciullo, si rintanò all’albergo dei vecchi. E li morì.

LE VECCHIE CAMPANE DI CATANIAAsu

Sono 14, fra le molte centinaia di tutte le chiese della città, le più antiche campane di Catania. Le altre sono state costruite nel 800 e nel 900. In cattedrale:la campana del popolo perché serviva a dare l’annunzio delle esecuzioni capitali; il campanone, uno dei più grandi di tutta la Sicilia e del mondo, alto 2 metri e 20 centimetri e con una circonferenza alla base di 5 metri e 90 centimetri, scaraventato in mare dal terremoto del 1693 e poi rifuso anche con oro e argento donato dai cittadini (1514); campana dell’orologio (1527). Nella chiesa di S.Agostino: la più grande (1505) e la più piccola (1514) delle tre campane. Nel Santuario della Madonna del Carmelo: 1525. Nella chiesa di san Francesco di Paola: la campana maggiore del 1600. Nella chiesa di san Domenico: 1625. Nella chiesa di S.Nicolo l’Arena: la seconda, per grandezza, delle cinque campane reca la data del 1683 mentre la maggiore, restaurata negli anni 50, dopo circa un secolo di silenzio, quella del 1708. Nella chiesa di san Giuseppe al Duomo: la maggiore delle campane è del 1753. Nella chiesa di san Agata al borgo: 175. Nella chiesa di santa Maria dell’Aiuto: la campana grande è del 1768.

ACATAPANIsu

Si chiamavano così, nel 700, i vigili sanitari che avevano il compito di far rispettare l’ordinamento annonario dei numerosi mercati della città, dove regnava il disordine. In tali mercati si vendevano le merci più disparate , dal pane alle candele di sego, al caciocavallo ai maccheroni, al sale, alla <<quagliata>> . Il servizio di vigilanza annonaria vietava fra l’altro <<confusione, affollamento, di metter mano ai canestri, cofani od altro, ove son posti i pesci e di presceglierne i migliori>>. Ai contravventori si infliggevano pene, come quella di <<due tratti di corda agni ignobili o di un anno di carcere alle persone civili>>, la qualcosa dimostra che, nonostante tutto, era preferibile, a quei tempi, essere plebeo e non aristocratico. Gli acatapani erano evidentemente consapevoli dell’importanza della loro funzione, tant’è vero che, nel 1779, pretesero di partecipare alla cavalcata che si faceva ogni anno durante la festa di san Agata. Il Senato cittadino si oppose a questa richiesta :gli acatapani presentarono allora ricorso al re Ferdinando IV, ma il sovrano approvò la decisione del Senato.

LE VISITE DEI BORBONIsu

Anche i re borbonici onorarono di loro visite Catania:re Ferdinando III di Sicilia venne a Catania nel 186, e visitando le fabbriche di seta, allora numerose a Catania, si dice che abbia denominato la città <<la mia diletta Londra>>; re Ferdinando II delle Due Sicilie, vi venne tre volte, nel novembre del 1838, nel dicembre del 1841 e nell’ottobre 1852, e spesse volte lasciò ricordo del suo animo volgare e impetuoso, che facilmente trascendeva a vie di fatto, perché nel 1838 prese a pugni gli impiegati governativi che per servilismo volevano staccare i cavalli dalla carrozza reale, per trascinarla loro stessi, e ruppe con un pugno gli occhiali a un certo Maravigna; nel 1841, mentre il re saliva lo scalone del grandioso convento dei Benedettini, un consigliere comunale catanese, certo Anzalone, mise malaccortamente il piede su uno degli speroni del re, e glielo ruppe,e alle sue scuse re Ferdinando rispose con un violento schiaffo, onde i catanesi, sempre motteggiatori, composero questo rapido epigramma: <<Anzalon/al re ruppe lo spron,/il re di botto/gli diè un cazzotto :/pari all’angla Giarrettiera/dei cazzotti ciascun l’ordine spera>>.

IL FURTO ALLA CHIESA DI S.NICOLO’ L’ARENAsu

Dal tabernacolo del tempio, alla fine del 1697, fu trafugata la pisside con le ostie consacrate. Il colpevole fu smascherato alcuni giorni dopo: era un servo dell’annesso convento dei benedettini: si chiamava Gaetano Cugno ed era messinese. Fu catturato ad Acireale e ricondotto a Catania e solo allora rivelò dove aveva nascosto le ostie: le aveva avvolte in un pezzo di carta e deposte accanto a un muretto nel giardino dello stesso convento. La pisside invece, ridotta in minutissimi pezzi, l’aveva addosso in un sacchetto. Qualche settimana dopo il ladro sacrilego saliva al patibolo. Nel luogo del ritrovamento fu innalzata un’icona, sostituita nel 1800 da una lapide che è murata nel cortile del palazzo e tradotta vuol dire <<a Dio Ottimo Massimo, regnando in Sicilia Carlo II di Spagna, presso il muretto di questo giardino furono ritrovate, ammucchiate, ricoperte di pietre e avvolte in carta, le particole del Santissimo Corpo di Cristo che uno scelleratissimo Gaetano Cugno con furto sacrilego aveva asportato…>>. L’epigrafe ricorda anche che i monaci donarono l’olio affinché in quel luogo ardesse sempre una lampada.

LA STRANA MORTE DEL VICERE’ CARAMANICOsu

Verso a fine del 700, giunse a Palermo il nuovo viceré, Francesco d’Acquino, principe di Caramanico. Figlio dei tempi, perseguì una politica di tipo illuministico. Nel 1788 abolì le <<angherie>>, in altre parole le prestazioni obbligatorie e gratuite dovute al feudatario. Nel 1789 decretò l’abolizione della servitù della gleba nelle campagne. Per ciliegina sulla torta deliberò la riduzione a quattro seggi su 12 la partecipazione dei nobili nella <<Deputazione del regno>>, vale a dire nel governo dell’isola. Il viceré l’aveva combinata grossa! Come si poteva ridurre così il potere dei nobili? L’ 8 gennaio 1795, il principe di Caramanico mentre si trovava <<alla casina della principessa del Cassero nella contrada delle terre Rosse, fu assalito improvvisamente da violenta convulsione che sull’ore 11 del giorno nove seguente gli tolse la vita senza che avesse potuto ricevere il Santo Viatico, né munirsi dell’Estrema Unzione>>. Di delitto si trattò certamente. Per tutta la notte il principe, aveva, infatti, sofferto, senza nessun’assistenza medica. Nel popolino circolava la voce che fosse stato ucciso su mandato del giovane ministro Acton, favorito della regina Maria Carolina. Indubbiamente la sua morte cessò di recar danni ai baroni siciliani. Il giallo in ogni caso rimase un segreto.

LA LEGGENDA DELLA BELLA ANGELINAsu

Per spiegare il toponimo del comune di Francavilla di Sicilia (ME), una leggenda popolare racconta di una nobile fanciulla francavillese, Angelina, di cui si era innamorato il delfino di Francia; il quale, durante il Vespro, venne a rapirla nottetempo, per questo Angelina raccomandava alla sua fedele ancella Franca di vegliare (Franca, vigghia!), per essere pronte al momento dell’atteso segnale di partenza. La leggenda, in realtà, non è che un tentativo di spiegare etimologicamente il toponimo di Francavilla, che in siciliano suona appunto Francavigghia.

L’UVA SCONFIGGE I SOLDATI FRANCESIsu

I vigneti di Màscali (CT) sono rinomati per la bontà delle loro uve, e per l’alta gradazione dei loro vini cantati, nel suo celebre Ditirammu del 1787, anche da uno dei più grandi poeti siciliani, il palermitano Giovanni Meli. E furono proprio le uve mascalesi a sconfiggere le truppe francesi che Luigi XIV aveva inviato in Sicilia per sostenere la rivolta antispagnola di Messina, nel settembre 1677, perché i soldati francesi, giunti nella piana di Màscali, fecero una tale abbuffata d’uve, da essere decimati dalla dissenteria, e pertanto costretti a rientrare a Messina.

LA LEGGENDA DEI DUE FRATELLIsu

Per spiegare l’origine del monte Mojo (che si trova in provincia di Messina), che ha l’aspetto di un moggio, o di un immenso cumulo di grano, una leggenda locale parla di due fratelli, di cui uno era cieco, e l’altro era un volgare profittatore; il quale, al momento della spartizione del grano trebbiato, riempiva il moggio completamente quando toccava a lui, e lo capovolgeva, riempiendolo dal fondo, quando toccava al fratello cieco; e per di più gli faceva passare sopra la mano,per fargli capire che il moggio era ben colmo; e il fratello cieco, passando la mano sul misero mucchio, diceva: <<Se non vedo io, vede per me Iddio!>>. E il Signore ci penso lui, a fare le giuste vendette; perché, quando fu terminata la fraudolenta spartizione, una spaventosa folgore bruciò il fratello ladro, e trasformò l’enorme mucchio di frumento nel monte Mojo, che ancora si vede.

TORRE ALESSIsu

Sul finire dell’800 una vasta area a nord-ovest del giardino Bellini, compresa fra il viale Regina Margherita e la Via Cesare Beccarla, era occupata da un grande agrumeto appartenete alla famiglia Alessi. Scarseggiava però l’acqua per irrigare, sicché i proprietari decisero di far costruire una grande vasca di raccolta (una gebia): volevano una costruzione che non apparisse troppo rustica e che anzi propendesse a qualche eleganza, sicché affidarono l’opera all’architetto Carlo Sada, che nel penultimo decennio del 900 era impegnato nella costruzione del Teatro Massimo Bellini. Per rifornire la gebia occorreva anche una di quelle così dette <<guglie>> per regolare l’aflusso dell’acqua. Sada, così a poi raccontato la figlia Teresa, decise di mascherarla all’interno di una svettante torre quadrangolare alta 35 metri e avente in cima una terrazza da cui ammirare il panorama: Era rastremata e fasciata tutta intorno da una scala a spirale munita di ringhiere e culminava con una cupola di ferro. Tutta la costruzione era ispirata a un vago stile orientale. Dopo la seconda guerra mondiale, quel vasto agrumeto andò progressivamente scomparendo per lasciare posto a un nuovo quartiere residenziale, finchè non giunse anche l’ora della torre, che ahimè fu abbattuta dai nuovi proprietari.

LA LEGGENDA DE LA ZISAsu

A Palermo, nel quartiere Olivuzza, c’è un grandissimo palazzo che assomiglia a un castello ed è chiamato La Zisa. In questa Zisa c’è una grande entrata, è fatta d’oro ed elegantemente affrescata; nel centro sta una fontana di marmo dalla quale sgorga acqua limpida e fresca, e nella quale si riflettono i mosaici dorati delle pareti. Alla Zisa c’è un incantesimo per via di un grande tesoro nascosto di monete d’oro. A tenere l’incantesimo, a guardia del tesoro, ci stanno i Diavoli, i quali non vogliono che sia preso dai Cristiani. Questo palazzo fu infatti costruito al tempo dei pagani, e sì ci custodivano i tesori dell’imperatore. All’entrata della Zisa ci sono dipinti dei diavoli: chi va a guardarli nel giorno della festa dell’Annunziata (25 di marzo) vede che essi muovono la coda, storcono la bocca, e non si finisce mai di contarli. C’è chi dice siano tredici, chi quindici, chi di più. Sono diavoli, ed appunto per questo non si fanno mai contare. Anche le monete non si sa quante siano e nessuno è mai riuscito a prenderle. Ma un giorno forse ci riuscirà a sciogliere l’incantesimo e allora finirà tutta la miseria di Palermo. E’ per questo che, quando una cosa non si può sapere con esattezza, si dice: <<E chi su, li diavuli di La Zisa>>!

L’ELEFANTE DI CATANIAsu

A un’antica leggenda è riportata l’origine dell’elefante di Catania, che dal 1239 è il simbolo ufficiale della città. Questa leggenda racconta che quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e pericolosi furono messi in fuga da un elefante, al quale i catanesi, in segno di ringraziamento, eressero una statua, da loro chiamata con il nome popolare di liotru, che è una correzione dialettale del nome di Elidoro, un dotto catanese dell’VIII secolo, che fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania san Leone II il Taumaturgo, perché Elidoro, non essendo riuscito a diventare vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l’elefante di pietra. Diverse ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l’origine e il significato della statua di pietra, che oggi troneggia in Piazza Duomo, nella sistemazione datale dal Vaccarini nel 1736. Di queste ipotesi due meritano un cenno: la prima è quella dello storico Pietro Carrera da Militello (1571-1647), che nel suo libro Memorie Historiche della città di Catania, lo spiegò come simbolo di una vittoria militare riportata dai catanesi sui libici; ipotesi che ha generato il telone del teatro Bellini di Catania, perché il pittore Sciuti nel 1890, per l’inaugurazione del teatro, vi raffigurò proprio questa immaginaria vittoria dei catanesi sui libici. L’ipotesi più attendibile è però quella espressa dal geografo arabo Idrisi nel XII secolo: secondo Idrisi, l’elefante di Catania è una statua magica, costruito in epoca bizantina, proprio per tenere lontano da Catania le offese dell’Etna; questa sembra la migliore spiegazione che si possa dare sul simpatico pachiderma, cui i catanesi sono legatissimi, tanto da minacciare una sommossa popolare, quando nel 1862 si ventilò la proposta di trasferire u liotru dalla Piazza Duomo alla periferica piazza Palestro.

TERREMOTO DEL 1818su

Segni premonitori del sisma furono un nubifragio che allagò la parte occidentale della città, le acque dei pozzi che “apparvero torbide e puzzolenti” (dal 17 al 20 febbraio), un leggero movimento tellurico (il 18), una violenta mareggiata che si abbatte sulla costa la mattina del 20 e, nelle prime ore del pomeriggio di quel giorno, un rombo sotterraneo. Poi improvvisamente, alle 19,25, “gagliardissimo tremuoto scosse Catania e tutta la regione dell’Etna, ove atterrò e sconquassò le città e i villaggi dell’esteso territorio”. Le scosse furono due; l’epicentro fu localizzato ad Aci Catena e in quella zona e nei centri vicini si ebbero i danni più gravi, decine di morti, centinaia di feriti. A Catania immenso fu il panico, tutta la città piombò nel buio, chiese e palazzi in parte crollarono; fortunatamente non vi furono però morti. Un viaggiatore francese, lo scrittore Louis Simond, giunto a cavallo all’indomani del terremoto, lasciò questa testimonianza: “Entrando a Catania, per una bellissima porta (oggi porta Garibaldi, allora Ferdinandea), fummo colpiti di tristi effetti dell’ultimo terremoto. La metà della case erano puntellate, e innumerevoli pezzi di legno, appoggiati contro i muri, ostruivano le strade affollate. Gli abitanti, interamente rinvenuti dalla paura che avevano avuto di recente, si fermavano per vederci passare, come se non fossero stati essi stessi dei soggetti molto più strani”. A Zafferana etnea 29 persone perirono sotto le macerie della chiesa madre mentre seguivano gli esercizi spirituali in preparazione alla Pasqua. Altre quattro morirono nelle loro case distrutte dal “sgagliardissimo” terremoto.

UNA LAPIDE PER GOETHEsu

Si trova in Via S.Martino, dettata nel 1905 da Mario Rapisardi, scolpita da Salvo Giordano, inaugurata il 19 aprile 1956 sotto un medaglione del poeta (opera dello scultore Pietro Clerici): “Qui-dov’era l’albergo del Leon d’oro-alloggiò dal 2 al 5 maggio 1787 – Volfango Goethe – che nella contemplazione beata – dell’Etna e del mare-popolati di tanta gloria di miti – ritemprava l’olimpico ingegno – allo splendore – della greca giovinezza importante”.

NEVEsu

Fino ai primi decenni del 900 quando ancora la refrigerazione dei cibi era affidata alle ghiacciaie, a Catania era assai diffuso il commercio della neve dell’Etna. Essa era accumulata in montagna in cavità naturali, adatte allo scopo, dette neviere, e trasportata in città e nei paesi limitrofi con carretti coibentati in maniera rudimentale. Infatti, per evitarne lo scioglimento, i venditori di neve cospargevano il fondo del carro con uno strato di carbonella, ricoperto a sua volta di felci; al di sopra di quest’ultime si disponeva la neve avvolta in un telo di canapa protetto superiormente da un altro strato di felci. Il commercio e l’uso della neve furono proibiti, per motivi igienici, dopo la seconda guerra mondiale, cancellando così una tradizione secolare. Ecco due testimonianze. Il domenicano francese padre Giovanni Battista Labat, nel suo libro Voyage en Espagne et en Italie racconta che nel giugno del 1711, a Messina nel convento dell’ordine domenicano di S. Girolamo, gli fu servito, in una grande brocca, “vino refrigerato dalla neve” e che “un monaco appena vedeva una tazza vuota la riempiva senza perdere un istante”. E Patrick Brydone, gentiluomo scozzese, venuto a Catania nel maggio del 1780: “Gli abitanti di questo paese caldo, anche i contadini, dispongono di ghiaccio durante i calori estivi; e non c’è festa organizzata dalla nobiltà, in cui la neve non rappresenti una parte importante: una carestia di neve, dicono loro stessi, sarebbe più grave di una carestia di grano o di vino. Tra di loro regna l’opinione che senza le nevi del monte Etna, la loro isola non potrebbe essere abitata, tanto è divenuto necessario per essi questo articolo di lusso”.

L’ATTENTATORE DI TOGLIATTIsu

Nel 1948 Pallante Domenico Antonio attentò alla vita dell’on. Togliatti, leader comunista. Era iscritto alla facoltà di legge nell’università di Catania, ma non aveva sostenuto alcun esame; abitava a Randazzo, comune in provincia di Catania coi genitori, due sorelle e un fratello; non apparteneva ad alcun partito politico. Partì da Randazzo per Roma, in treno, la mattina del 9 luglio; l’attentato avvenne la mattina del 14 dinanzi ad un portone laterale del palazzo di Montecitorio; quattro colpi di pistola. Togliatti era con l’on. Leonilde Jotti; fu trasportato al Policlinico; per guarire gli occorsero diverse settimane, interventi chirurgici, trasfusioni: L’Italia fu sull’orlo della guerra civile. Pallante fu subito arrestato. Perché avesse attentato alla vita di Togliatti non si sa bene; era un nazionalista accesso, fu tutto quello che si poté appurare; e lo sollecitava l’ambizione di entrare nella storia in compagnia di altri famosi attentatori, Muzio Scevola, Passanante, Cresci, Gavrilo Princip. Fu condannato e spedito nella casa penale di Noto; qui leggeva, leggeva senza sosta; era tranquillo;si può ben dire che fosse un detenuto modello. Il 31 luglio tre detenuti siciliani (Guastella, Gaddi e Celestre) ,armati di due paia di forbici e di un trincetto, tentarono di ucciderlo, per acquistarsi benemerenze politiche e giudiziarie; scampò. Pallante uscì presto dal carcere, con l’amnistia del 1953. Togliatti, nel novembre 1955, acquistò all’asta per 600 lire, la pistola con la quale Pallante gli aveva sparato.

PIETRA DEL MALCONSIGLIOsu

E’ legata al ricordo di un periodo drammatico della storia siciliana, quando dopo la morte di Ferdinando il Cattolico (23 gennaio 1516), il viceré Ugo Moncada si rifiutò di lasciare l’alta carica e, sostenuto da un gruppo di esponenti della più alta nobiltà dell’isola, scatenò una sanguinosissima guerra civile che prese le mosse da Palermo e che funestò la Sicilia, con conflitti, congiure e vendette, per tre lunghi e tormentati anni. A Catania, dove contavano molti seguaci, i nobili ribelli e i loro fautori “scelsero per le loro riunioni segrete un giardino nel piano dei Trascini, nei pressi di due antichi avanzi: un capitello dorico in pietra lavica e un grosso pezzo di architrave, pure in pietra lavica, provenienti probabilmente da uno dei grandiosi templi di cui era ricca Catania nell’antichità”. La lotta divampò feroce, finche i fautori del Moncada non ebbero la peggio. Il nuovo viceré, Ettore Pignatelli, riuscì a stroncare le ribellioni, colpendo i responsabili con mano pesante: molti ribelli finirono sulla forca, altri furono cacciati in esilio, i loro beni confiscati e “le loro case atterrate”. Il Senato della città a memoria, e monito di questi avvenimenti, fece rimuovere i due antichi avanzi lavici: il capitello, che da allora si chiama “Pietra del malconsiglio” venne innalzato nel piano della Fiera (oggi Piazza Università) mentre il pezzo di architrave fu sistemato all’ingresso del palazzo della Loggia e su di esso i debitori insolventi erano fustigati con apposite verghe. Dopo il terremoto del 1693 della “pietra del malconsiglio” e dell’architrave nessuno più si ricordò. La prima nel 1872 fu rimossa e posta in un cantuccio della corte del Palazzo Carcaci ai Quattro canti, e li è rimasta. Il secondo pezzo invece si trova nel cortiletto posteriore del teatro Massimo Bellini.

LA LUNAsu

La luna nella fantasia popolare non è sempre il medesimo corpo; ella si distrugge e si forma nuovamente ad ogni mese, distruzione e formazione che chiamano fari e sfari di luna. A quell’istante dell’innovazione lunare attribuiscono varie influenze, come quella di far nascere i funghi e gli asparagi, di fare nascere i fiori del pomodoro. Le viti si potano a luna crescente, se si vuole abbondante prodotto. Le manguste, i granchi e ricci marini non si trovano pieni della loro carne, se non sono pescati nel plenilunio. Le mutazioni atmosferiche e le piogge si aspettano sempre dall’una all’altra fase o dall’uno all’altro novilunio. Nell’epidemia di vaiolo che avvenne a Mazara nella seconda metà del 1879 si narra che l’aumento e la decrescenza del male seguiva le fasi lunari.

TESORI NASCOSTIsu

La fantasia popolare ha arricchito le viscere della terra di tesori, che attendono ancora di essere scoperti. C’è n’è ad ogni piè sospinto, si conoscono i luoghi, dove giacciono; né per quanti se ne scoprissero, potrebbero esaurirsi, sia perché per uno che se ne trova, ne crescono due, sia perché la scoperta è accompagnata da grandissime difficoltà. Bisogna per esempio mangiare una melagrana senza farne cadere alcun acino, o una focaccia senza farne cadere alcun briciolo, o rischiare la pelle, poiché lo scopritore è condannato a morire tre giorni dopo, o deve esserne ucciso, uno quando sono in più. Questi tesori sono incantati, e spesso non possono disincantarsi che con lo spargervi sopra il sangue d’un povero diavolo battezzato. E chi può vantar tanto coraggio da affrontare la paura delle tenebre notturne, le apparizioni e i prodigi che precedono ed accompagnano la fortuna scoperta? Il solo pensiero d’avvicinarsi in ore di profondo silenzio ad un luogo disabitato o solitario, reso più spaventevole dal mistero, dalle idee dell’incantesimo e delle fate, fa deporre il pensiero di arricchire con tanto risico. Tutti questi tesori sono enumerati e il modo di scoprirli è descritto in tante lapidi fisse al muro nella capitale del Gran Turco sotto la guardia continua di gente armata che impedisce ai passanti d’alzare gli occhi e di leggere; e quando il Gran Turco chiede se siano stati scoperti e gli è risposto che no, esclama: Povera Sicilia! Uno di questi tesori è guardato da vari principi che ne tengono le chiavi d’oro appese alla cintola, e può scoprirlo chi partendosi al primo tocco che suona l’orologio a mezzanotte, vi giunga prima che siano cessati di battere i rintocchi. E’ avvenuto talvolta che una donna nell’attingere acqua dal pozzo, abbia tirato una secchia così pesante, da dover chiamare un’altra in aiuto, ed abbia allora sentito un rumore come di una cosa che precipita; questo perché le fate avevano riempito il secchio di monete d’oro, e che poi lo avevano svuotato perché era stata chiamata un’altra a far parte di tanta fortuna!

VILLA SCABROSAsu

Nel 1669 parte di Catania fu sommersa dalla lava durante la terribile eruzione dell’Etna. Tutta la zona che dal castello Ursino arrivava fino alla vecchia via della Concordia risultò poi costellata di “terrazze laviche” sensibilmente più elevate rispetto al piano della “vaddazza”. Una di queste terrazze aveva una vasta conca presso la quale scorreva una grossa vena d’acqua che si perdeva fra le sabbie della non lontana spiaggia: Il principe Ignazio di Biscari, ottenne dalle autorità demaniali il permesso di costruirvi un giardino di tipo architettonico, ma durante la realizzazione cambiò idea. Ordinò che il rustico della villetta venisse lasciato allo stato iniziale, fece piantare quanti più alberi poté, fece deviare il vicino corso d’acqua riempiendo la conca e creando un pittoresco laghetto. Nacque così la Villa Scabrosa, luogo solitario e romantico che fu il ritrovo della nobiltà catanese e della gioventù dorata cittadina. La Villa Scabrosa dovette rappresentare in quell’epoca un oasi di verde e di felicità in un deserto di sciare grigie e tetre, ma per i catanesi rappresento quasi un simbolo della tenacia e della volontà di restituire alla vita la loro città così duramente colpita dalla furia del vulcano. Non per nulla le autorità cittadine vollero che l’unica stampa che riproduceva questo gioiello fosse esposta alla “Mostra del giardino italiano” che nell’aprile del 1931 fu tenuta a Firenze, assieme ad alcune visioni della Villa dei Paternò Castello principi di Biscari, quella stessa che doveva poi diventare l’attuale Giardino Bellini.

LA PRIMA STAMPAsu

Nel 1471, sedici anni dopo che Gutenberg aveva stampato la Bibbia a caratteri mobili, arrivò da Roma a Catania il tipografo tedesco Enrico Aldig, con maestranze e macchinari, attratto dal miraggio di mettersi a stampare le leggi municipali. Ma gli archivi municipali catanesi funzionavano male, lavoro non c’è n’era e perciò Aldig tornò a Roma e, sette anni dopo stampò (1478) la Vita di S. Gerolamo: il 1471 avrebbe potuto essere l’anno della prima opera a stampa catanese, ma non fu così. Il primo stampatore catanese fu così un altro, novant’anni dopo. Il libro più antico stampato a Catania, conservato nella biblioteca universitaria, è il De Successione feudalium repetitio, scritto da un giurista e uomo di lettere catanese, Giuseppe Cumia e da lui stesso pubblicato nel 1563 nella tipografia che aveva appositamente impiantata in casa propria nel novembre dell’anno prima. Nello stesso anno (20 aprile 1563), e nella stessa sua stamperia, un volumetto di versi: Rime – di Giuseppe Cumia – Dottor dell’una et l’altra Legge – Siciliano di Catania. Dopo il Cumia si deve arrivare al 1623 per rivedere i torchi a Catania, quando Giovanna d’Austria vendette, a Militello, per 110 onze, le attrezzature tipografiche del marito defunto a Giovanni Rossi e al Petronio associati, i quali si impiantarono nella nostra città.

PORTA UZEDAsu

Chiude, come una quinta di alto valore scenografico, la Via Etnea a sud, nel tratto in cui, superata la piazza Duomo, la strada maestra di Catania si insinua, per concludersi in via Dusmet, tra l’ex palazzo dei Chierici a ovest e l’ala di levante dello stesso seminario. Fu appunto per unire questi due corpi di fabbrica che nel 1695, per volere del Duca di Camastra, don Giuseppe Lanza, venne costruito un cavalcavia che diede origine ad una porta che allora fu detta della Marina. Ma cambiò nome in quello stesso anno in omaggio al viceré don Francesco Pacco, duca di Uzeda, venuto a Catania per rendersi conto dei lavori di ricostruzione della città sulle macerie del terremoto del 1693. Sopra quell’arco, negli anni che seguirono, a iniziativa del vescovo mons. Salvatore Ventimiglia, vennero costruiti i piani superiori, collegati anch’essi con le due ali del palazzo, e in alto fu eretto un sontuoso fastigio con una nicchia centrale che racchiude un busto di S.Agata che guarda la città e un’iscrizione marmorea: “D.O.M.Sapientiae et bonis artibus-1780″ (A Dio ottimo massimo, alla sapienza e alle sue belle arti). Sul balcone che si apre proprio sulla porta dalla parte di Via Etnea c’è un grande stemma del vescovo.

CARCERE VECCHIOsu

Prima che si costruisse il carcere tra le vie di San Giuliano e Ventimiglia e la Piazza Pietro Lupo, era utilizzato per custodire i detenuti il Castello Ursino; fu anche adibita a tale uso la vecchia casa del marchese di Raddusa, in piazza Duomo. La costruzione del carcere avvenne nel 1825; l’inaugurazione avvenne nel 1831. L’edificio, progettato dall’ing. Mario Musumeci, ubicato nella prosecuzione della via dei Quattro Cantoni (l’odierna via Antonio di San Giuliano), è un fabbricato massiccio a pianta quadrata e due elevazioni; dotato di 125 finestre, poteva ospitare 600 detenuti. Conserva tutt’oggi intatta la sua struttura originaria. Rimase carcere giudiziario per oltre un secolo. Dopo la cacciata dei Borboni, nella cella n.9 fu trovata questa frase, tracciata col sangue su una parete: “Mai ci siamo sentiti tanto liberi come ora che siamo in carcere per la libertà della Patria”. Intorno al 1935, con il completamento della costruzione del nuovo carcere in fondo alla Via Ipogeo, quello di via di San Giuliano perdette, a causa degli ultimi eventi bellici, la sua primitiva funzione. L’edificio ha subito nel tempo lievi modifiche interne. Conserva nel resto le antiche strutture, persino le grate alle finestre. Sul timpano c’è un orologio; una lapide ricorda che l’edificio fu costruito con pubblico denaro sotto il regno di Francesco I di Borbone. E’ anche rimasta intatta la cappella alla quale si accede dall’ampio cortile interno.

BILLONIAsu

Personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra due secoli, il XIX e il XX. Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era “la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini” (Domenico Magrì). Andava anche su e giù per via Etnea “con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri” (Pietro Nicolosi). In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre “ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia” (Giuseppe Toscano Tedeschi). D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: “e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere”(Pietro Nicolosi). Nessuno la vide più.

IL TERREMOTO DEL 1693su

A questo terribile cataclisma sono legate due leggende catanesi quella di “Don Arcaloro” e quella del vescovo Carafa. La prima di queste due leggende narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale, e con la sua vociaccia gridò a Don Arcaloro di affacciarsi subito, perché gli doveva dire una cosa di grande importanza: ne andava di mezzo la vita! Don Arcolaro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire. La vecchia strega allora confidò al barone che quella notte gli era apparsa in sogno S.Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua amata città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi, aveva rifiutato di concedere la grazia; ed aggiunse la terribile profezia “Don Arcaloru, Don Arcaloru, /dumani, a vintin’ura, /a Catania s’abballa senza sonu!”, e cioè “Don Arcaloro, don Arcaloro, domani, alle 14, a Catania si ballerà senza musica!”. Il Barone capì subito di quale ballo la vecchia parlasse; e si rifugiò in aperta campagna, dove attese l’ora fatale: e puntualmente all’ora indicata dalla strega il terremoto si verificò. Un vecchio quadro settecentesco, riprodotto da Salvatore Lo Presti, rappresenta il barone catanese con l’orologio in mano, in attesa della funesta ora.
La seconda leggenda relativa al terremoto del 1693 è quella che riguarda il vescovo di Catania Francesco Carafa, che fu a capo della diocesi dal 1687 al 1692. La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua cara città il terribile terremoto. Ma nel 1692 egli morì, e l’anno dopo, venute meno le sue preghiere Catania fu distrutta. Nell’iscrizione posta sul suo sepolcro, che si trova nel Duomo di Catania, si legge infatti: “Don Francesco Carafa, già Arcivescovo di Lanciano poi Vescovo di Catania, vigilantissimo, pio, sapiente, umilissimo, padre dei poveri, pastore così amante delle sue pecorelle, che poté allontanare da Catania due sventure da parte dell’Etna, prima del terremoto del 1693. Dopo di che morì. Giace in questo luogo. Fosse vissuto ancora, così non sarebbe caduta Catania!”.

LA STORIA DI GAMMAZITAsu

Alla signoria degli Angioini in Sicilia (1270-1282) è da riferire la patetica storia della giovinetta catanese di cui la leggenda ci tramanda lo strano nome di Gammazita. Il racconto popolare relativo a questa virtuosa giovinetta catanese dice che essa preferì gettarsi in un pozzo, forse nel cortile dei Vela, verso il 1280, anziché cedere alle voglie di un soldataccio francese che la insidiava. E’ evidente il collegamento con la realtà storica, non soltanto per il riferimento alle angherie compiute dai dominatori francesi sugli oppressi siciliani, che fu una delle cause dello scoppio dei Vespri siciliani del 30 marzo 1282, ma anche per il tentativo di spiegare come macchie del sangue di Gammazita i depositi ferruginosi lasciati da una sorgente minerale, che scaturiva a Catania tra le lave di Via San Calogero, e da qualche tempo disseccate. Una vecchia poesia popolare ricorda le virtù di Gammazita; in questi versi, una virtuosa fidanzata del buon tempo antico, per tenere a bada il focoso innamorato, lo ammoniva a tenere le mani a posto, altrimenti ella, come la vergine catanese del periodo angioino, si sarebbe gettata in un pozzo, preferendo la morte al disonore.

PIPPA LA CATANESEsu

Era una florida popolana nata a Catania, e morta a Napoli. Visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo vero nome era Filippa “per vezzo familiare detta Pippa”. Di mestiere faceva la lavandaia ma il destino le riservò poi un’esistenza quasi splendida conclusa però con una morte atroce. Giovanissima, fù scelta per nutrice di Luigi, figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona nato nel castello Ursino, per cui “si addisse al nuovo servizio con entusiasmo di affettuosa mamma siciliana”, tirando su con ogni cura il principe, che cresceva vigoroso. Allorché gli Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli, Pippa seguì la Corte dove i sovrani “l’ebbero in particolare benevolenza, l’arricchirono di doni e la tennero in onore”, anche quando il “bambino regio” improvvisamente morì. Anzi, conquistò un ruolo sempre più importante e frattanto aveva acquistato “gentilezza di modi”, fino a sposare il siniscalco del regno al quale diede tre figli. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria, il quale, ancora prima dell’età dei ventidue anni, volle essere consacrato re di Napoli, ostentando nella cerimonia dell’incoronazione, la minaccia della mannaia per i dissidenti, i quali erano molti e facevano affidamento sull’antipatia e l’intolleranza che la sovrana, che amoreggiava con il cugino Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu ordita una congiura; e il meschino fu strangolato e scaraventato giù da una finestra. Intervenne il Papa, quale supremo signore feudale sul Regno di Napoli, e cominciò, per identificare i congiurati, la caccia all’uomo ma la prima ad essere indiziata fu una donna, Pippa assurta da qualche tempo a rango di confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente torturata, disse di aver saputo della congiura ma di non avervi preso parte. Ma dalla catanese si voleva sapere di più, “adoperando tenaglie infuocate per dilaniare le carni di lei”, per costringerla a parlare. Ma la donna, o perché veramente non sapeva nulla o per fedeltà alla sua regina, non parlò e spirò fra strazi orrendi. Anche uno dei suoi figli e un nipote furono martirizzati: bruciati vivi sul rogo mentre quelli che avevano assassinato Andrea restarono immuni da qualunque punizione.

I GIGANTI URSINI E IL PALADINO UZETAsu

Il più insigne monumento medioevale di Catania è il poderoso castello Ursino, fatto costruire dall’imperatore Federico II di Svevia dal 1239 al 1250, nello stesso luogo dove sorgeva un castello che dominava il porto e il golfo di Catania, che perciò latinamente si denominava castrum sinus, cioè “castello del golfo”, da cui per corruzione si ebbe “castello Ursino”. Per spiegare la denominazione di “Ursino”, la fantasia popolare ha immaginato l’esistenza di giganti saraceni, chiamati appunto, e non si sa perché, Ursini, che il conte normanno Ruggero avrebbe sconfitto nell’XI secolo, impadronendosi del loro castello sulla spiaggia di Catania. Naturalmente, questa leggenda non ha alcun fondamento storico, ed è evidente la sua analogia con la leggenda normanna di Messina, in cui il conte Ruggero sconfisse i due giganteschi castellani saraceni Grifone e Mata, ne occupa il castello e li costringe ad assistere al trionfo cristiano; come non ha alcuna consistenza storica l’altra leggenda relativa ai giganti Ursini, secondo la quale essi sarebbero stati sconfitti e uccisi dal paladino catanese Uzeta (Questo paladino dalla nera armatura, sebbene sia stato eternato nel bronzo di uno degli artistici candelabri di Piazza Università, è frutto della fantasia di un giornalista catanese dei primi del novecento, Giuseppe Malfa, che lo immaginò figlio di povera gente, divenuto cavaliere per il suo valore: e come in tutte le favole belle, egli uccide i suoi nemici, tra cui i giganti Ursini, e finisce per sposare la figlia del re.

SCILLA E CARIDDIsu

Un altro esempio del costume di personificare le forze della natura in personaggi ideali, furono le figure di Scilla e Cariddi. Scilla, dal lato calabro, e Cariddi dal lato siculo, furono rappresentati dal mito greco come due mostri che terrorizzavano i naviganti al loro passaggio. Scilla (colei che dilania), e Cariddi (colei che risucchia), rappresentavano per i greci le forze distruttrici del mare. Un tempo Scilla era conosciuta come una bellissima donna, figlia di Ecate, la quale fu poi trasformata in un orrendo mostro di forma canina, dalle sei orrende teste e dalle dodici zampe. Cariddi, figlia di Poseidone e della Madre Terra, era considerata come una donna vorace, che Giove scagliò sulla terra insieme ad un fulmine: ella era usa bere enormi quantità di acqua che poi ributtava in mare.Queste due divinità, pur essendo state localizzate tra le due rive dello stretto di Messina, dove le coste sono più vicine, furono intese in senso lato a rappresentare i pericoli del mare dove questo è ristretto dalla presenza delle terre. Un altro fenomeno notato dagli antichi era quello che, fu chiamato “Fata Morgana” (costei, sorella di re Artu’ ed allieva del Mago Merlino, fu un personaggio dei romanzi cavallereschi). L’evaporizzazione provocata dal surriscaldamento dell’acqua del mare, nelle calde giornate d’estate, (particolarmente quando l’acqua dello stretto appare calma) produce foschie, facili a creare immagini di ombre vaganti. Furono proprio queste foschie che facevano “vedere” ai Greci, dalla costa calabra, schiere di uomini erranti sulla costa sicula,a far nascere il mito della Fata Morgana.

ARETUSAsu

Racconta il mito che Aretusa, figlia di Nereo e di Doride, inseparabile amica della dèa cacciatrice Diana, venne da questa dèa trasformata in una fonte di acqua dolce, che sgorga copiosa lungo la riva baciata dalle acque del porto grande di Siracusa. La metamorfosi fu attuata per sottrarre la timida ninfa alla insistente corte del dio Alfeo; costui, però, quale divinità fluviale, scorrendo sotto le acque del mare Egeo, raggiunse la fonte nella quale era stata trasformata l’amata Aretusa. Raggiunta la fonte, Alfeo sgorgò a non molta distanza da lei, al fine di consentire alle sue acque di raggiungere quelle della fonte Aretusa e quindi mescolarsi con loro. In verità, Alfeo era un piccolo fiume della Grecia che, dopo aver effettuato un breve tragitto in superficie, scompariva sotto terra. Quando i Greci trovarono la piccola sorgiva di acqua dolce fuoriuscire non lungi dalla fonte copiosa di Aretusa, trovarono lo spunto per spiegarsi, fantasiosamente, la scomparsa del fiume Alfeo in Grecia, che sarebbe riapparso in superficie (dopo il lungo viaggio sottomarino) in Sicilia.

ACI E GALATEAsu

La ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea, venne dai Greci spiegata con il mito di Aci e Galatea. Aci, era un pastorello che viveva, pascolando il suo gregge, lungo i pendii dell’Etna. Di lui era innamorata la bella Galatea che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo. Questi, accortosi delle preferenze date da Galatea al pastorello Aci, uccide il suo rivale, nella speranza di conquistare la bella Galatea, una volta eliminato il suo concorrente! Ma, ahimè, l’amore di Galatea per il suo Aci continua sino a dopo la sua morte, lasciando Polifemo sconsolato. La bianca Nereide, sconsolata, con l’aiuto degli dèi, trasforma il corpo morto di Aci in sorgive di acqua dolce, che scivolano giù, lungo i pendii dell’Etna, mormorando suoni melanconici di struggente nostalgia. Non lontani dalla costa, vicino la località chiamata oggi “Capo Molini”, in un luogo poco accessibile da terra e più facilmente dal mare, esiste una piccola sorgiva ferruginosa chiamata dalla gente locale “il sangue di Aci” per il suo colore rossastro. Notare quale soave spiritualità pervade questa storia che non spiega nient’altro che un fenomeno geologico. Nella località chiamata oggi “Capo Molini” esistette un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello del mito greco, Aci. Nell’XI° sec. d.c.d.C.D.C. un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti, i quali fondarono altri centri nei dintorni. In memoria del nome della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci, al quale fu aggiunto in seguito un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro: così Aci Castello (per un castello costruito su di un faraglione prodotto da un’eruzione sottomarina che poi fu raggiunto da una colata lavica nell’XI sec., trasformandolo in un promontorio); Acitrezza (per la presenza di tre faraglioni antistanti il Paese); Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci S. Antonimo, Aci Platani, Aci Sanfilippo.

I RIFLESSI CATANESI DELLA STORIA DI COLA PESCEsu

La leggenda di Cola Pesce è diffusa in tutta la Sicilia ed in tutto il mondo mediterraneo, e di lei corrono ben 18 varianti, sicché di questa leggenda si può parlare come della leggenda”nazionale” della Sicilia, per gli elementi culturali, storici e ambientali che vi si trovano: ed una variante della leggenda dice addirittura che Cola Pesce si trova in fondo al mare, per sostenere una delle tre colonne, ormai pericolante, su cui secondo la fantasia popolare si regge l’isola. I riflessi catanesi della leggenda di Cola Pesce, che era un sub eccezionale, capace di stare settimane e mesi sott’acqua, come un autentico pesce, sono dati non soltanto dal fatto che molte varianti della leggenda lo dicono nativo di Catania, ma anche dal fatto che a Catania, nel Settecento, c’era un bravo tuffatore, un popolano soprannominato Pipiriddumi, che si vantava di essere un diretto discendente dal celebre Cola Pesce; ma il riflesso catanese più importante nella leggenda di questo tuffatore veramente singolare è che Cola Pesce, in tutte le varianti del racconto popolare, parla sempre del fuoco dell’Etna, che ribolle sotto il mare: e in una diffusa variante della leggenda, il marinaio catanese muore proprio bruciato dal fuoco sottomarino dell’Etna, perché il re Federico, incredulo della relazione fattagli da Cola, pretese che egli portasse una prova di quanto affermato. Al che, Cola Pesce prese una ferula (il noto, leggerissimo legno che galleggia facilmente) e disse : “Maestà, questa ferula ritornerà bruciata alla superficie del mare, e questa sarà la prova che sotto il mare esiste il fuoco dell’Etna; ma io non ritornerò più, perché il fuoco sottomarino mi distruggerà”. E così fu.

LA LEGGENDA DEL CAVALLO SENZA TESTAsu

La Catania del 700 ci presenta una leggenda davvero affascinante, quella del cavallo senza testa. Questa leggenda è ambientata nella bellissima Via Crociferi; in questa via i numerosi nobili che vi abitavano nel 700, e che vi tenevano i loro notturni conciliaboli o per intrighi amorosi o per cospirazioni private, e quindi non volevano essere notati, e tanto meno riconosciuti, fecero spargere la voce che di notte vagasse un cavallo senza testa, e perciò nessuno vi si avventurava una volta calate le tenebre. Soltanto un coraggioso giovane scommise con i suoi amici che ci sarebbe andato nel cuore della notte, e come prova di questo, avrebbe piantato un grosso chiodo sotto l’Arco delle monache Benedettine, che la tradizione vuole costruito in una sola notte nel 1704. Gli amici accettarono la scommessa; e l’ardimentoso giovane, munito di scala, del grosso chiodo e del martello, si recò a mezzanotte sotto l’arco delle monache, e vi piantò il chiodo (ancora se ne vede il buco);ma,nell’eccitazione non si accorse di avere attaccato anche un lembo del suo mantello al muro; sicché quando volle scendere dalla scala, si sentì afferrato a una mano invisibile; il giovane cedette allora di essere stato afferrato dal cavallo senza testa, e ci rimase secco. Aveva vinto la scommessa: ma la leggenda del cavallo ebbe una clamorosa conferma, e nessuno si azzardò più di passare di notte per Via Crociferi.

IL CAVALLO DEL VESCOVO DI CATANIAsu

All’età sveva appartiene la leggenda che parla del cavallo del vescovo di Catania. Dice infatti questa leggenda che il crudele imperatore svevo Enrico VI, che regnò in Sicilia dal 1194 al 1197, impose in Sicilia vescovi e dignitari a lui fedeli, e suoi degni rappresentanti anche quanto a ferocia . Uno di questi crudeli funzionari imperiali era il vescovo di Catania, il quale una volta affidò il suo cavallo più bello a uno scudiero, per portarlo a passeggio sulle balze dell’Etna. Il cavallo a un certo punto, si imbizzarrì, e cominciò a correre verso la cima del vulcano; lo scudiero, ansante e grondante sudore, seguì il cavallo del vescovo fin sulla vetta dell’Etna; ma, arrivato sull’orlo del cratere centrale, il cavallo diede un balzo, e vi sparì dentro. Il povero scudiero si mise a piangere pensando a quale sorte lo aspettava se fosse tornato a mani vuote dal suo feroce signore; quando improvvisamente vide accanto a sé un vecchio, dalla solenne barba bianca, che gli disse: “Io so perché tu piangi; vieni con me,e ti mostrerò dov’è il cavallo del vescovo di Catania”. E afferratolo per mano, lo condusse per un passaggio misterioso, attraverso il fumo del vulcano, dentro una sala meravigliosa, p dove c’era un trono tutto d’oro, e sul trono c’era re Artù (che secondo una leggenda inglese vive ancora sull’Etna). Il re gli disse che sapeva tutto di lui e del crudele vescovo di Catania, e gli mostrò, in fondo alla sala, il cavallo che egli cercava, ed aggiunse: “Torna dal tuo vescovo, e digli che sei stato alla corte di re Artù; e digli anche che la sua crudeltà e la sua prepotenza, hanno stancato perfino la pazienza di Dio, che presto lo punirà per mio mezzo; e digli infine che, se vuole il suo cavallo, deve venire a riprenderselo lui stesso, salendo a piedi fin qui; ma se non verrà entro 14 giorni, al quindicesimo giorno egli morirà”. E detto questo lo congedò. Lo scudiero, ritornò a Catania, ma il crudele vescovo non gli credette , anzi sostenne che lo scudiero aveva venduto il cavallo; ma, colpito dall’accento di verità del suo servo, non ordinò di decapitarlo, e lo fece imprigionare. Per 14 giorni, lo faceva venire dinanzi a sé e lo interrogava, e lo scudiero raccontava sempre la stessa storia di re Artù; il vescovo non voleva umiliarsi e riconoscere le sue colpe, e mandava sempre gente sull’Etna a cercare il suo cavallo, e la gente non tornava più. Così si andò avanti per 14 giorni; all’alba del quindicesimo giorno il vescovo, esasperato, si fece venire davanti l’intrepido scudiero. “Tu sei uno stregone” lo investì, “tu ti sei divertito a fare scomparire non solo il mio cavallo, ma anche i miei cavalieri e le mie guardie. E io ti darò ora il premio che si conviene agli stregoni come te: non la forca o la decapitazione, ma il rogo. Orsù, guardie, prendetelo e bruciatelo vivo!”. Nel dir così si alzò in piedi, ma strabuzzò gli occhi, diede una giravolta, e cadde morto stecchito. La profezia di re Artù si era avverata, e il crudele vescovo aveva terminato per sempre di tormentare i poveri catanesi.

IL CLIMA DELLA SICILIA

Il racconto mitologico afferma che un giorno di primavera il Dio Plutone, re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa; e rimase colpito dalla visione che apparve ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Vederla, innamorarsene e rapirla, fu tutt’uno per Plutone; e se la portò giù agli inferi. Il ratto fu cosi subitaneo, che nessuno seppe dare indicazioni alla madre Cerere, che per tre giorni e tre notti ricercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell’Etna. Alla fine dei tre giorni d’inutili ricerche, Cerere si adirò e cominciò a far soffrire gli uomini, provocando siccità, carestie e pestilenze. Gli uomini allora si rivolsero a Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; e Giove risolse il problema, decidendo che Proserpina stesse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre; e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone, determinando così l’alternanza di due sole stagioni nel clima della Sicilia.